Ci sono alcune parole e concetti “tecnici” che più di altri nascono ampi: sono definizioni ombrello, dentro le quali si innestano una serie enorme di altre sottodefinizioni, richiami a conoscenze pregresse, riflessioni, considerazioni, che le rendono per loro natura difficili da sintetizzare. Una tra queste è “branding”.
Partiamo dall’inizio.
La parola branding si compone di un prefisso nominale brand e di un suffisso -ing utilizzato in inglese per indicare un’azione, un fare.
Brand vuol dire marca e già su questa ipersinteticità potremmo aprire una serie di riflessioni (marca o marchio? sono diversi? in cosa?).
Fare branding oggi è un’attività cruciale, che coinvolge tutte le aziende, ad ogni livello. E non solo: siamo tutti coinvolti in una continua attività di gestione della nostra identità anche online. Costruiamo e alimentiamo relazioni di valore, produciamo contenuti, immagini, contatti che ci aiutano a definire e comunicare il nostro valore sul mercato. Si parla di personal branding quando le attività di branding riguardano le persone.
Da LinkedIn al bar: il personal branding è ovunque
LinkedIn è il social network da molti ritenuto cruciale per la gestione di queste attività. Nato con l’obiettivo di offrire strumenti integrati per la gestione della propria identità professionale è — in estrema sintesi e semplificando molto — una porta sul nostro curriculum, uno spazio in cui arricchire le voci fredde del cv con contatti, segnalazioni, tracce del proprio valore, del proprio modo di agire, scrivere, pensare e lavorare.
Ma il personal branding non si limita alla gestione del proprio profilo LinkedIn. Il personal branding si fa ovunque, anche al bar.
L’attività di branding è pervasiva e in parte non intenzionale o comunque non completamente controllabile.
Come ogni attività complessa, si sviluppa nel tempo, prevede il ricorso a mezzi e strumenti, si collega a obiettivi e metriche che quegli obiettivi possano misurarli. Il branding, personale o di marca, dovrebbe esplicitarsi in una strategia, un piano integrato di azioni dirette a raggiungere uno o più obiettivi.
Il branding coinvolge sempre le persone
Il brand-ing è un processo che comporta il porre in essere una serie di attività, azioni, progetti. Che hanno a che fare sempre con le persone.
Le aziende che lavorano sul branding lavorano sempre anche sulle persone che ogni giorno rendono possibile la creazione di un prodotto o l’offerta di un servizio. I primi influencer e ambassador delle marche sono le persone coinvolte in vari momenti della vita dell’azienda.
Il punto di contatto tra brand-azienda e brand-persona, l’area su cui si sovrappongono è proprio questa.
Per le aziende, fare brand-ing ha una dimensione osservabile che si esprime anche in linee grafiche, immagini, scelte cromatiche e di contenuto. Fare brand-ing vuol dire anche scegliere le persone che rappresentano quell’universo di significati e di valori che oggi sono le aziende. Tutte.
Per le persone, fare brand-ing si sostanzia in tanti micro momenti, micro azioni e micro scelte che nel loro insieme contribuiscono a comunicare il proprio valore.
Anche qui, aspetti esteriori e osservabili (abbigliamento, modo di esprimersi, scelta delle parole e dei contenuti) ma anche elementi intangibili non immediatamente percepibili (atteggiamenti, comportamenti, reazioni) contribuiscono a comunicare la propria identità. Il valore del brand “persona” è dinamico e può essere solo in parte condizionato o progettato su carta. Il brand “persona” credo possa essere più facilmente gestito, curato, valorizzato.
Se partiamo da questi assunti allora la corretta gestione della propria rete di relazioni professionali su LinkedIn è solo una parte di un discorso molto più ampio. Il personal branding lo facciamo anche quando pubblichiamo uno status su Facebook, quando facciamo un like a un post o scegliamo un’immagine per raccontare il nostro ultimo viaggio su Instagram. È dalla somma di queste parti che ognuna delle persone che verrà in contatto con noi potrà farsi un’idea più o meno precisa del nostro valore.
La parola chiave che sceglierei per tutte le attività di branding è “coerenza”. Che può diventare anche una più profonda “onestà” o la più fredda “trasparenza”.
Essere sé stessi e fare in modo che gli altri ci conoscano per quello che siamo. Fare e raccontare ciò che facciamo ma senza ricette buone per tutti, senza forzature sterili, senza automatismi efficienti ma inefficaci nel lungo periodo.
Smettiamo di cercare palcoscenici su cui esibirci a tutti i costi. Smettiamo di distribuire emoji sorridenti. Smettiamola.
Cerchiamo il giusto equilibrio tra il nostro personale grado di socievolezza e l’obbligo di socialità imposto dai social. Forziamoci a parlare se siamo taciturni ma solo quanto basta per ricordare alle persone che ci siamo anche noi. E cerchiamo di tacere ogni tanto se abbiamo stabilito il record di presenza tra i commenti dei nostri contatti.
Gestire un brand non è una gara in cui vince chi parla, scrive, spende, cambia, sorride di più. Gestire un brand è un processo, un movimento verso un obiettivo, un posizionamento desiderato o un fatturato che possa permettere al brand di vivere e sopravvivere.